 |
a sarajevo? e perchè?
|
|
|
|
A SARAJEVO? E PERCHE'?
Articolo di Chiara Righetti (Roma) e Gaetano Fiore (Napoli)
Noi ci siamo stati l'anno scorso con i nostri Rover e Scolte.
Si tratta anzitutto di imparare facendo, di dire basta alle teorie e di tornare a sporcarsi le mani.
Quante volte i nostri Clan si lanciano incautamente in capitoli sulla politica o sulla guerra sulla base di immagini televisive?
Certo, vista da casa la guerra sembra qualcosa di inutilmente selvaggio e fuori moda, che abbiamo lasciato ai paesi del terzo mondo. Ma a Sarajevo i nostri ragazzi la possono toccare, vedono che ha colpito ragazzi come loro, quelli che ora si spostano sulle carrozzine fornite dallo stato; ha colpito bambini dell'età dei lupetti, abituati a guardarsi l'un l'altro con odio. Lì si impara a conoscere i segni rossi delle granate sull'asfalto, i muri forati dalle schegge, i carri armati delle forze di pace che sono una presenza inquietante a ogni angolo di strada. Se lo scout é ancora un esploratore, non potete mostrargli la guerra in cartolina.
A Sarajevo si offre l'occasione di annusare gli odori dei quartieri, di assaggiare la "pita" e i "cevapcici", di bere il caffé turco nel bricco di rame, di perdersi nei vicoli del quartiere musulmano, fra i muezzin e le bancarelle di artigianato, si può respirare l'aria umida e soffocante del tunnel scavato a mano, alto un metro e largo altrettanto, che per lunghi mesi é stata l'unica porta della città assediata. Si può passare, affrettando il passo, lungo il viale dei cecchini, tenuto sotto tiro per tutta la guerra, e vedere i tram fermi fra le due corsie che erano l'unico riparo dal fuoco dei tiratori.
A Sarajevo si scoprono sul campo le difficoltà di convivenza fra tre diverse culture, i pregiudizi radicati, le parole e i gesti che in un quartiere sono tabù, perché richiamano ricordi di violenza. Si capisce come una guerra civile sia potuta scoppiare alle soglie del 2000 anche in Europa, in una società evoluta come quella jugoslava dove la convivenza pacifica tra diverse etnie era la regola e un modello per il mondo, e particolarmente in Bosnia, dove i matrimoni misti erano addirittura il 40% del totale.
Che ciò sia stato possibile solo perché il rifiuto e la paura sono nati lentamente tra colleghi di lavoro o tra vicini di casa, alimentati dalla propaganda nazionalista, dalle dicerie e dal sospetto. Si capisce come un abisso di rancore si sia scavato non d'improvviso, ma giorno dopo giorno, fra il serbo, il croato e il bosnjacco che prima lavoravano gomito a gomito, ed é cresciuto fino a quando lo scoppio della guerra lo ha reso incolmabile. Si vede come oggi l'odio si tramanda di padre in figlio, nelle famiglie dove tutti gli uomini validi sono mutilati o hanno perso il lavoro; e diventa un mezzo di sostentamento come il pane, è a volte l'unica spinta ad andare avanti, a lottare, a non abbandonare la propria casa distrutta.
A Sarajevo ti rendi conto del potere enorme che hanno i media, attraverso la manipolazione dell'informazione o semplicemente i complici silenzi. I loro media, quando capisci quanta paura, sospetto e odio sono riusciti a trasmettere per rendere possibile questa guerra; i nostri, quando metti a confronto quello che essi ci raccontano, o non ci raccontano, con le testimonianze dirette di chi ha vissuto la guerra. E capisci che non puoi e non devi subire l'informazione come un prodotto preconfezionato, ma saperla cercare e valutare con la tua testa.
A Sarajevo si riscoprono l'importanza e l'attualità del sogno di B. P., di cominciare dai ragazzi. Perché là è più che mai evidente che non esiste altra strada se non quella: ripartire dai bambini, dai giovani, se si vuole costruire un mondo migliore.
Se si vuole insegnare loro la convivenza, il rispetto, l'amore, per farli ribellare a un mondo di adulti ormai radicati nell'odio.
A Sarajevo si incontra il coraggio, quello vero, che non fa chiasso ma che smuove le montagne. In uno smilzo giornalista dell' Oslobodjenje , il solo giornale che non ha mai fermato le macchine sotto il fuoco delle bombe, il simbolo della speranza, dove pochi indipendenti delle tre etnie hanno continuato a collaborare per la libertà e la pace. O in Don Renzo (don Renzo Scapolo, ndr ), il piccolo prete di Como che un giorno ha deciso di portare un messaggio di pace, di marciare con fiori e striscioni sulle strade, con la follia di Cristo messa a servizio dell'amore, e da allora non se n'è più andato.
A Sarajevo, quando una famiglia povera vi accoglie fra i resti della sua casa, vi fa sedere nell'orto spelacchiato, fra le oche e le galline e i mucchi di mattoni, coi panni stesi e i bambini che giocano lungo i confini bianchi e rossi di un campo minato; quando i piccoli vi salgono in braccio e vi sorridono, mentre i grandi vi parlano di odio e di vendetta, si impara a capire senza giudicare, ad ascoltare con amore, a riconoscere la dignità umana che non è fuggita davanti alla paura e ora cerca di risollevare la testa, di ricostruire la vita, pietra dopo pietra.
A Sarajevo, soprattutto, si scopre quanto siamo inutili. Ai rover e alle scolte un campo così può dare la vera dimensione del servizio. Che da un lato non è un lusso, ma una scelta di vita e una necessità del cuore, se si vuole dire no a un mondo duro e violento. Dall'altro lato i ragazzi scopriranno che le poche ore giornaliere di lavoro da muratori o di animazione coi bambini non bastano a cambiare il mondo e neppure Sarajevo, e che - ben più che il nostro piccolo aiuto - conta la nostra presenza, il nostro desiderio di incontrare e condividere, il nostro sorriso, il piccolo segnale di speranza che possiamo dare scegliendo di essere lì. Soprattutto, davanti alle briciole di quello che noi possiamo fare, sarà importante per loro tornare a casa cambiati, pronti a costruire il proprio futuro su nuove basi, dopo aver capito che "non cambia il mondo chi non cambia se stesso".
A Sarajevo, vi aspettiamo! |